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mercoledì 12 gennaio 2011

Cesare Lombroso in Calabria


Titolo: In Calabria
Autore: Cesare Lombroso
Edizione: Rubettino
Cesare Lombroso, più noto per la sua attività di criminologo e antropologo, in effetti è stato molto più di questo. E' stato uno scienziato completo, interessato praticamente ad ogni aspetto della vita, come traspare da In Calabria, la riedizione della Rubettino di un suo vecchio trattato, che Lombroso scrisse nel 1861, alla vigilia dell'unità d'Italia, per poi pubblicare l'anno dopo, e successivamente, riveduto e corretto (anche grazie all'assistenza del medico calabrese Giuseppe Pelaggi), nel 1897.
Il trattato si struttura in 11 capitoli e spazia dalla struttura fisica della Calabria, alla storia popolare e delle sue popolazioni, con un esame anche della letteratura popolare della regione. Si passa poi ai costumi del luogo, alla sicurezza, alle malattie più diffuse e all'igiene, proponendo alla fine anche dei rimedi. E la cosa più incredibile che si legge tra le righe di Lombroso è la lamentela dell'eccessiva presenza dello stato, già allora legato a filo doppio con i potenti (imprenditori, pochi; possidenti terrieri; criminali), una lamentela che riecheggia, ad esempio, in quest'ottimo articolo di hronir, dove il nostro si spinge fino alle estreme conseguenze, quelle verso le quali Lombroso non sembra avere il coraggio di andare. D'altra parte Lombroso, per farsi carico di questa posizione, cita Ruiz e il suo Discorso nell'anno Giudiziario 1895 - Catanzaro:
Di fronte allo stato miserevole delle classi produttive, di fronte al disordine economico e morale che ne deriva, e che induce alla delinquenza, mi domando: è lecito che sia lasciato all'arbitrio dei grandi proprietarii fondiarii di far restare incolte sterminate estensioni di terreno, come si osserva a preferenza nelle Calabrie, diminuendosi così la produzione, per modo che essa riesca al di sotto dei mezzi di sussistenza occorrenti alla popolazione? Deve il diritto assoluto alla proprietà estendersi al punto da non potersi divietare ai proprietarii del suolo di mantenere latenti le ricchezze naturali, le quali sono nello stesso tempo ricchezza pubblica?
In Calabria, però, si distinguono anche due tipi distinti di criminalità, una quella tipica dei banditi (che ancora di 'ndrangheta non si parlava), l'altra quella semplice, di strada, dovuta proprio all'estrema povertà degli abitanti. E Lombroso questa violenza non la giustifica (al contrario di chi ci governava e ci governa) e lo ribadisce ancora una volta citando Ruiz:
Non è colle repressioni che si può sperare una diminuzione della criminalità, sebbene da sapienti leggi sociali, dal miglioramento economico dei lavoratori senza cui non potrà aversi il miglioramento morale (...)
L'idea di fondo, dunque, è quella di una distribuzione più equa delle risorse della regione (e sappiamo che questo discorso è attuale oggi, e ancor più esteso al globo intero), e nonostante tutto la sensazione è che le critiche rivolte al sistema politico calabrese (e anche italiano, che ne è il padrone di quello regionale) siano dovute a un amore per la Calabria e per i popoli che lì vi abitano, un amore nato dalla conoscenza.
Al tempo dell'unità d'Italia (che quest'anno spegne 150 candeline), Lombroso infatti partecipò attivamente alla campagna anti-borbonica, e proprio durante quella campagna stese queste note dedicate alla Calabria e poi riviste a trenta anni dai fatti.
Il libro parte dalla descrizione delle caratteristiche fisiche della regione e dalle risorse presenti. Quindi, da buon antropologo, si dilunga nella descrizione delle colonie greche e albanesi presenti sul territorio, facendo anche i nomi dei paesi: per un calabrese è un tuffo nella sua regione. Colpiscono, però, anche i molti poemetti popolari che Lombroso mette in questi due capitoli, che testimoniano l'interesse dello scienziato verso il popolo e la sua cultura. Ad esempio
Dominicuccia, mandorla rotta,
tua madre ti fece
con grande voluttà (grazia)
per innamorare i bei giovani.
L'idea è quella di mostrare una certa libertà di costumi da parte delle popolazioni delle colonie (e non solo): in effetti la donna in Calabria è forse più rispettata, ma il biasimo verso la moralità delle genti calabresi è tutta sulle spalle degli uomini:
Né di poco aumenta l'immoralità, il costume di impalmare le ragazze a 9-12 anni, senza riguardo all'imperfetto sviluppo di quelle creature, che danno origine, poi, ad una prole atrofica, intristita, incapace di lunga e forte esistenza; immoralissimo poi è l'uso di prometterle fino dalle fasce in matrimonio, precludendo, per una vana ragione di famiglia, le voci del cuore e della natura.
Il discorso, in effetti, ci introduce alla parte che probabilmente preme di più al buon Lombroso: le questioni di salute, igiene e ignoranza. In effetti la sensazione è che la prima parte del libro, quella dedicata alle colonie e alla cultura popolare sia necessaria per dimostrare come in Calabria non ci si trovava di fronte a un popolo di ignoranti e caprai, che, scacciati dalle terre coltivabili dall'inazione dei possidenti terrieri, spalleggiati dai politici locali (a loro volta spalleggiati da quelli nazionali), affollavano i centri urbani, si davano al crimine, emigravano o facevano emigrare i loro figli.
Le condizioni igieniche e lo stato di salute dei calabresi erano un punto estremamente delicato della Calabria post unione. Ho provato a graficare la tabella della mortalità del 1889:

La mortalità in Calabria nel 1889
Il grafico racconta di una Calabria che in quasi tutte le cause per morte ha una media superiore rispetto al Regno d'Italia. I due picchi più alti sono quelli della bronchite (2332,8 Calabria; 1797,2 Regno) e dell'enterite (1306,8 e 1230,7). Tolte queste due malattie, il grafico diventa leggermente più leggibile:

Mortalità in Calabria nel 1889
Solo nel caso della scarlattina (e poco altro) c'è una evidente differenza in favore della Calabria rispetto al Regno.
E infine la scuola e l'ignoranza, comprese le superstizioni, regalano alcune sorprese (o forse no). La spesa per ciascuno studente è di 28,80 lire, superiore rispetto ad esempio alla Lombardia, che spendeva 19,21. Come mai?
La scuola classica piemontese non sembra funzionare in Calabria: la gente non ne vede l'utilità, e i ragazzi non vengono mandati a scuola. Al massimo ci si va contro voglia, giusto per ottenere un certificato, il classico pezzo di carta. Gli insegnanti, poi, di scarsa qualità, più interessati al nozionismo e alla trasmissione a memoria di poche frasette da recitare nel saggio di fine anno. Per il resto non c'è neanche una gran preoccupazione rispetto all'educazione stessa. Gli insegnanti, rincara Lombroso usando Ruiz,
(...) li vediamo ad un tempo industrianti, commessi di agenzie, amministratori di famiglie signorili e, sopra tutto, agenti elettorali. Cosa resta per la scuola? Le poche ore svogliatamente destinate a riempire la mente dei fanciulli di tante notizie mal comprese, che valgano a renderli stupidamente presuntuosi, sdegnosi del lavoro manuale, audaci, ambiziosi. Divenuti appena adulti aspireranno a insediarsi nelle amministrazioni comunali dei loro paeselli: quindi presto s'iniziano a tutte quelle arti di corruzioni, frodi e violenze che servono di preparazione alla vita pubblica.
E intanto le maggiori spese e i maggiori impegni vengono tutti rivolti nelle feste, un ottimo modo per mantenere la popolarità presso gli elettori, e le offerte alle chiese:
Molti dei pregiudizi medici, che il nostro Mantegazza ritrovava fra i gauchos dell'America del sud, si ripetono in Calabria e forse con maggiore insistenza.
E non è solo un problema di religione in sé, ma una sua interpretazione nei termini del paganesimo precedente all'avvento del cristianesimo.
Probabilmente le molte tabelle che Lombroso mette nel testo servono innanzitutto allo scienziato per mantenere il dovuto distacco da una terra che, lo ha dimostrato, è ricca di storia e cultura e dove, questo lo aggiungo io, è stato svolto un vero e proprio esperimento politico che poi, con gli anni, è stato proficuamente esportato nel resto dell'Italia (e del mondo, mi verrebbe da dire...).
A questo punto, però, mi sarebbe piaciuto proporvi una poesia o un qualche verso arberesche, ma sono andato via prima che il mio amico Francesco (con il quale abbiamo aperto Stipaturi e cerchiamo di mantenerlo vivo) iniziasse a farmi lezioni su questa lingua particolare, quella dei coloni albanesi, per intenderci. Così dovete accontentarvi di questi versi calabri:
Dimani partirò, piangendo: addiu.
Tutti gli amici miei t'arricomanno.
Se parto con dolore, lo saccio iu;
Lo sanno li occhi miei, 'l pianto che fanno.
Quando che arrivo allo paisi miu.
Fazzio una letteredda, e te la manno.
Di dintro scriverò lo nomi miu,
E la soscritta a lagrimi di sangui.

Esta canzune è ditta aracciara(1):
Bella! che non vedrò chiu chisti mura!
O altrimenti potete dare un'occhiata alle Rapsodie d'un poema albanese a cura di Girolamo de Rada.
(1) Venditrice d'aranci.

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